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PER UN LICEO DELLE SCIENZE SOCIALI: APPUNTI dalla rivista "Sensate Esperienze"
La proposta di riforma complessiva della scuola, e in particolare la rifondazione della secondaria superiore sulla base di sei anni, pone uno scenario nuovo di cui va colta la valenza di cambiamento, l'implicita necessità di introdurre una netta discontinuità storico-culturale-pedagogica con il (lungo) passato della scuola italiana. Ritengo, inoltre, che per tentare di impostare in modo nuovo, ruolo, funzione e struttura degli indirizzi sociali, sia doveroso operare una decisa rottura epistemologica con la cultura scolastica della tradizione italiana. Qui di seguito esporrò alcune riflessioni che intendono essere appunti per proseguire la discussione su una possibile scuola riformata e, per quanto ci riguarda specificamente, per una nuova tipologia di Liceo delle scienze sociali.
PRIMO SCENARIO Gentile ha creato una scuola superiore: isolata dalla società, discontinua, antidemocratica, rinchiusa in ambiti culturali gerarchicamente distinti (dagli istituti tecnici al liceo classico). La storia postfascista della scuola non ha mutato alla radice l'impostazione gentiliana. Si sono verificate solo delle scalfitture, degli aggiustamenti, poiché le esperienze significative di sperimentazione sono rimaste di fatto isolate, e gli organi collegiali non hanno certamente portato la democrazia a scuola: ad essere benevoli, sono stati al massimo uno strumento di comunicazione con le famiglie. L’isolamento ha prodotto una pratica didattica e un'impostazione pedagogica autoreferenziali; non ci si pone, nel fare scolastico quotidiano, il problema dei fini dell'apprendimento, del chi è che apprende e in che società e per quale società apprende, cioè dei nuovi bisogni che il cambiamento culturale -in senso antropologico- comporta. I saperi scolastici sono diventati una sorta di istituzioni eterne, sostanzialmente immodificabili. Ad esempio: la liceità, si dice, impone il latino. Perché? Su quale base epistemologica, dato che la teoria dei transfert culturale è scientificamente inconsistente? Su quale considerazione psicologica? A quali fini sociali, se siamo d'accordo che la scuola dovrebbe formare una personalità criticamente libera e consapevole di sé e del mondo che la circonda, cioè cittadini e cittadine? Il latino è la lingua di una società antica, come il greco, il sanscrito, l'ebraico ecc.: tutto qui. Conferirgli un valore culturale speciale è una pura opzione ideologica, priva di qualsiasi senso scientifico (e antropologicamente priva di senso tout-court). Anche se la scuola italiana non se ne è accorta, il concetto di cultura è radicalmente cambiato almeno da cento anni. E Liceo sociale deve tentare soluzioni epistemologicamente fondate, senza continuare a offrire legittimità ai pregiudizi e ai preconcetti ideologici, che, anzi, sono un terreno di caccia privilegiato delle scienze sociali. Prima conseguenza: Il liceo delle scienze sociali non è separato dalla società che diventa la sua ragione d'essere. Il latino non trova posto in quest'ordine di scuola ("Con il termine liceità si intende una formazione che si caratterizza per la dimensione teorica e storica dei diversi saperi", La carta dei servizi del liceo Ariosto, Ferrara).
SECONDO SCENARIO Nel 1923 viene emanata la parte fondamentale della riforma Gentile, nel 1923 Piaget pubblica il suo primo saggio "maturo" sulla psicologia dell’età evolutiva. Questo solo per accennare agli scenari culturali diversi in cui si muoveva l'Italia e buona parte del resto d'Europa. In Svizzera, Francia, Belgio, Gran Bretagna, Olanda, Germania (per pochi anni) si fa ricerca scientifica, in Italia si impone un'operazione ideologica. Una delle più significative chicche prodotte dalla pedagogia ideologica gentiliana è l'Istituto magistrale, passato sostanzialmente indenne attraverso la guerra, la Resistenza, la repubblica e anche il '68. Un vero esempio del pasticcio pedagogico (educare più che si può, istruire quanto basta, secondo la sentenza rosminiana) da cui sono escluse, come scienze autonome e fondanti, proprio le scienze dell'educazione, che mi permetto di ricordare: la psicologia dell'età evolutiva, generale e sociale, la sociologia e specialmente la sociologia dell'educazione, l'antropologia culturale (e dei processi educativi), la tecnica o tecnologia didattica, la storia delle istituzioni formative. Non male per una scuola che doveva insegnare ad insegnare. Inoltre, grande importanza viene data al latino - nota scienza dell'educazione - e per dare dignità alla pedagogia e al pizzico di psicologia, considerate non scienze, le si fonda nelle solide braccia scientifiche della filosofia. Solo in Italia si poteva realizzare un capolavoro del genere. Seconda conseguenza: il liceo delle scienze sociali deve dimenticare l'Istituto magistrale, non si può fondare una nuova scuola secondaria pensando di riformare ciò che è irriformabile. Ci pentiamo di aver sopportato quell'orrido pasticcio, lasciamo pazientemente che alcuni si indignino - è inevitabile - e andiamo avanti. Le scienze sociali, inoltre, sono autonome rispetto alla filosofia che ha uno statuto epistemologico proprio. Se, nel corso del Novecento, si sono verificate delle positive interferenze tra filosofia e scienze sociali, ciò non ha comportato la riproposizione di ideologiche gerarchie, né ha rimesso in discussione gli statuti epistemologici propri delle scienze umane e sociali e della filosofia.
TERZO SCENARIO Gli indirizzi socio-psico-pedagogici sono stati vissuti nella scuola italiana in una triplice forma di marginalità:
Terza conseguenza: eliminare la marginalità è un'operazione complessa e a lunga scadenza, ma si può iniziare a risalire la china se si fanno almeno tre operazioni. Eliminazione della pedagogia, che è elemento di equivoco e di arretratezza culturale. La pedagogia si è da tempo, cioè da quando si è imposta la ricerca scientifica, disciolta nelle scienze dell'educazione; perciò, se si vuol mantenere un indirizzo pedagogico, il curricolo si deve articolare in psicologia, dell'età evolutiva, generale e sociale, sociologia e sociologia dell'educazione, antropologia culturale dei processi educativi, tecnica didattica, storia delle istituzioni formative. La pedagogia, in senso generale, è l'indirizzo teorico e didattico che si intende dare a un qualsiasi indirizzo scolastico, è la scelta dell'approccio educativo, non la teoria storica di filosofi, pedagogisti e pedagogie, brutta copia della storia della filosofia. In un indirizzo di scienze sociali va tolta la pedagogia e inserita l'antropologia culturale, che è scienza sociale, e formativa, centrale. "La scuola di antropologia culturale americana ha avuto il grande merito scientifico di aver adeguatamente individuato, attraverso il concetto di cultura, una dimensione strategica dei fenomeno sociale totale, la cui conoscenza ci permette di comprendere sia i processi di realizzazione delle esperienze conoscitive degli uomini, come persone che pensano e che operano individualmente, sia i modi in cui gli stessi uomini si associano tra di loro per operare collettivamente nell'interesse comune. La cultura, come patrimonio di esperienza individuale e collettiva, collega, in altre parole, i problemi tipici della psicologia e della filosofia della conoscenza con quelli trattati dai sociologi" (T.C. Altan, Antropologia. Storia e problemi, Feltrinelli, Milano, 1983, p. 147). Infine, si deve aprire l'accesso all'insegnamento ai laureati in sociologia, psicologia e antropologia e, nel contempo, istituire corsi di formazione per gli insegnanti degli indirizzi sociali.
QUARTO SCENARIO Tutte le proposte fino ad oggi formulate sul triennio iniziale della futura scuola riformata si trovano d'accordo nella perimetrazione dell'area comune, che deve contemplare almeno l'italiano, il latino e la matematica (e chi osa di più, inserisce anche la lingua straniera). Anche la storia antica gode di un forte consenso. Ci troviamo, dunque, a perpetuare quest'autoreferenzialità dei saperi scolastici che, crolli il mondo, devono essere sempre gli stessi, pena l'imbarbarimento della società, la banalizzazione dei ruolo docente, o chi sa quale altro disastro. La scuola continua a guardare a se stessa, come un funambolico yogi si raggomitola sulle sue certezze, pronta a parare i colpi che vengono dall'esterno. Si offrono ai giovani e alle giovani gli stessi percorsi formativi di cinquanta o cent'anni fa, come se gli input culturali della società contemporanea non fossero mutati, come se la nuova composizione di genere degli utenti scolastici fosse una fatto insignificante, come se la formazione pre-scolastica di bambini e bambine fosse sempre la stessa, come se non fossimo immersi in una crisi di civiltà, dei suoi presupposti etici e dei suoi fondamenti solidaristici, degli ideali, dei rapporti generazionali, dei luoghi della socializzazione (il supermarket ha sostituito la piazza), delle forme e degli strumenti e dei fini della comunicazione. Marc Augé, definisce nonluoghi gli spazi della nostra quotidianità postmoderna (o meglio surmoderna, come la definisce con un paradigma epistemologicamente significante l'antropologo francese); gli spazi d'incontro sono puramente fisici, hanno perso identità, doti di evocazione e di senso. I giovani subiscono in pieno questi processi e li ritroviamo a scuola diversi dai loro coetanei di qualche decennio fa. La scuola deve porsi il problema di chi apprende, in che contesto sociale apprende, per quale società apprende. Il processo di modernizzazione - in estrema sintesi, l'affermarsi definitivo e diffuso dell'industrializzazione - si è verificato nel nostro paese tra la fine degli anni '50 e i primi anni '60, con un ritardo di decenni rispetto agli altri paese europei. Ciò ha determinato un'accelerazione dei mutamenti sociali, culturale, economici e politici perché l'Italia si inseriva in un quadro europeo già profondamente cambiato. Siamo passati, in poco più di trent'anni da un paese industriale a un paese postindustriale o surmoderno, con una percentuale alta, e stabile, di disoccupazione (il fenomeno è europeo). Se a questo quadro accostiamo i fenomeni epocali che si sono verificati in seguito alla rottura dell'equilibrio mondiale fondato sulle due superpotenze atomiche, che ha portato a un'epoca di tensioni e di guerre, del tutto imprevedibile, possiamo immaginare quali radicali cambiamenti in termini culturale - in senso antropologico - psicologici e, ancora, sul terreno degli strumenti formativi personali, si siano verificati. Il futuro ha subito un processo di scotomizzazione antropologica. Rilevo, solo di passaggio, che qualche chiarificazione su questo nuovo quadro ci è pervenuto proprio dalle scienze sociali, e il fatto non è casuale. E la scuola come risponde? Riproponendo le solite discipline, i sempiterni percorsi culturali? Non sollevano ulteriori dubbi i sessantamila insegnanti che vogliono andare in pensione? Si va via dalla scuola come, da un qualsiasi ufficio statale, si fugge da una struttura burocratica che si percepisce priva di senso e di funzione. Non si dovrà tentare allora di fare uno sforzo di "immaginazione sociologica" (Wright Mills), che richiede una sensibilità storica, antropologica e critica, per comprendere i processi sociali, economici, antropologici e psicologici innescati dalle società contemporanee? (cfr. A. Giddens, Sociologia. Un'introduzione Critica, trad.it. il Mulino, Bologna, 1983, p. 19). I dubbi sull'efficacia formativa delle discipline "classiche" non ci provengono solo da un minimo di riflessione sociologica e antropologica, anche la ricerca psicologica ha già fornito risposte e proposte che non si possono ignorare. Nel 1934 (si tenga conto della data) poco prima di morire, Vygotskij scriveva:
Jerome Bruner all'inizio degli anni sessanta contribuisce a far conoscere al mondo anglosassone l'opera di Vygotskij e ne sviluppa il concetto della pluralità delle intelligenze (attiva, iconica, simbolico-linguistica). Howard Gardner si spinge ancora più avanti, in seguito a studi poderosi e a tutto campo, e sostiene che esistono "intelligenze multiple". Egli scrive nel 1983: "Nei capitoli seguenti delineerò una nuova teoria delle competenze intellettuali umane. Questa teoria mette in discussione la concezione classica dell'intelligenza che la maggior parte di noi ha assorbito esplicitamente [...] o implicitamente [...]. Per molto più di duemila anni, almeno dall'avvento della città-stato greca, un certo insieme di idee ha dominato le discussioni della condizione umana della nostra civiltà. Questo insieme di idee insiste sull'esistenza e l'importanza dei poteri mentali: capacità à che sono state variamente chiamate razionalità, intelligenza, o manifestazioni della mente. [...] Oggi possono essere maturi i tempi per una qualche chiarificazione sulla struttura della competenza intellettuale umana. [...] Nei capitoli che seguono sosterrò che esistono prove convincenti a conferma dell'esistenza di varie competenze intellettive umane relativamente autonome, che indicherò in seguito in modo conciso come "intelligenze umane" (Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell'intelligenza, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1989, pp. 24-28). E di seguito precisa l'esistenza di intelligenze linguistica, musicale, logico-matematica, spaziale, corporeo-cinestetica, personale e interpersonale. "Ne consegue - commenta Remo Fornaca- l'ampliamento della psicologia cognitiva e dello sviluppo, il diverso disporsi della cultura pedagogica e delle pratiche educative e la riformulazione dei rapporti tra le culture e lo sviluppo delle competenze intellettuali" (Dalla certezza alla complessità, Principato, Milano 1981, p. 442). Quarta conseguenza: le scienze sociali sono le discipline che sono in grado di coniugare sapere, saper fare e saper essere, che costituiscono la sintesi didattica della pluralità delle intelligenze. Sia gli scenari sociali innanzi delineati, sia le proposte della psicologia scientifica comportano, a mio parere, la necessità di ripensare tutti i curricoli della scuola riformata operando un salto netto di paradigma culturale, una radicale rottura epistemologica, se la scuola vuol riacquistare senso, per i suoi operatori, per i suoi utenti, se vuole uscire dalla marginalità sociale in cui è chiusa. Le scienze sociali, in questo quadro mutato, si trovano ad assumere un valore fondativo del senso, della significanza, personale e interpersonale. Le soluzione tecniche, orari, curricoli, area obbligatoria e opzionale, ecc., possono coraggiosamente - ma io direi anche doverosamente - essere ripensate non partendo dalla scuola - soluzione burocratica - ma dai nuovi bisogni, sociali, culturali, psicologici, personali e interpersonali. Se ci poniamo nell'ottica di questa rottura epistemologica, che può apparire provocatoria, come ogni mutamento di paradigma culturale, il senso forte di un liceo delle scienze sociali ne risulterà ben fondato culturalmente e ben centrale nella struttura della scuola superiore, abbandonando la propria specifica marginalità, e offrendo opportunità nella ricerca di signifìcanza della formazione scolastica a tutti i curricoli della scuola superiore. Leonello Bettin
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