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SULL’OSSERVAZIONE Leonello Bettin |
Vale la pena di spendere qualche riflessione sull’osservazione, data ormai la rilevanza che questo procedimento cognitivo è venuto assumendo nei riguardi delle relazioni educative e dello stesso processo di apprendimento, tanto che è legittimo affermare che non si può dar inizio a un efficace progetto formativo se non si ha una conoscenza approfondita degli allievi/e (argomento che falsifica qualsiasi tentativo di dare giustificazione didattica all’aumento del numero degli alunni per classe che sarebbe irrilevante: in realtà più il gruppo è ristretto più è possibile una seria conoscenza osservativa, premessa necessaria per l’avvio di una relazione educativa) [1]. Anche l’autonomia del processo di apprendimento è sostenuta dalla capacità osservativa da parte dei bambini/e e dei ragazzi/e, poiché l’addestramento all’osservazione è la via alla percezione problematica e laica, della realtà, del nostro mondo e di quelli Altri, dei nostri procedimenti cognitivi e di quelli Altri.
La rilevanza che il processo di osservazione ha nelle relazioni tra insegnanti e studenti/esse è sottolineato da chi si occupa di apprendimento e ritiene che ci si debba dare strumenti di antropologia per insegnare: «[Il] rapporto insegnante/bambini spesso implicito [può essere trasformato] in risorsa critica. Questo riconoscimento allo stesso tempo rivela la necessità per l’insegnante di operare […] in un modo consapevole nel fitto intreccio di differenze trasversali presenti all’interno del gruppo classe. Una particolare attenzione va posta nell’osservazione della molteplicità delle culture e della molteplicità dei ruoli rivestiti dall’età, dal sesso o dalla classe sociale» [2].
Ma, prudenza innanzitutto: l’osservazione non potrà portare a una conoscenza piena e definitiva, non può e non deve; il «non-sapere riguardo all’altro» [3] é l’atteggiamento adeguato per una osservazione non pregiudiziale, per una conoscenza non etichettante, per una disposizione a modificare le proprie convinzioni e a modificarsi (l’osservazione è attività che implica feed-back, retroazione), è un’ottica epistemologicamente e emozionalmente – osserviamo soggetti vivi, non merci – aperta e che muta.
Va detto anche, fin da subito, che il passaggio da un ‘vedere’ casuale a un ‘osservare’ ordinato non è di per sé garanzia risolutiva di un mitico tragitto dal soggettivo all’oggettivo (categorie di un obsoleto paleo positivismo duro a morire), anzi un’osservazione non sorvegliata e priva di auto consapevolezza può diventare una via perversa per validare prassi, atteggiamenti, mentalità, modelli comportamentali tradizionalmente etnocentrici e altrettanto tradizionalmente “scolastici”; insomma esiste il rischio, serio, che l’osservazione ci confermi nella nostra pessima prassi educativa.
Il rischio dipende da diversi fattori che ruotano attorno a tre questioni che potremmo chiamare “errore del problema”, “errore della prospettiva” e “errore del contesto” [4], che derivano dal fatto che noi facciamo osservazione entro una cornice – la cultura scolastica - molto connotata e traboccante di pregiudizi e di preconcetti.
Il primo è centrale nel nostro fare scolastico, oppresso e monodirezionato dalla routine, che dà importanza ai risultati educativi ma è cieco sui processi che li producono, tanto che «non sappiamo il perché, né tantomeno conosciamo il processo attraverso cui da “bimbi svegli e intelligenti” (perché sembra che a livello elementare le cose vadano [andavano?] molto meglio) si diventi via via del “somari” » [5]. Quel che manca è, appunto, “l’analisi di processo” [6]: qui va applicata l’osservazione, che è attività di analisi aperta, attraverso cui costruire un’epistemologia dell’apprendimento e, dunque, un fare scuola attrezzato e, soprattutto, contestualizzato. Finché rimaniamo legati, come la scuola ha sempre fatto, ai risultati, si cronicizzerà la patologia della “spiegazione-interrogazione-verifica-spiegazione”, negandoci la possibilità di capire i concreti e complessi percorsi di apprendimento. Il paradigma va negato e perciò rovesciato, dai risultati ai processi, se infatti non si individua qual è il problema centrale, l’attività osservativa sarà semplicemente rituale andando incontro a un sicuro scacco.
Il secondo errore, di prospettiva, è più complesso perché riguarda nientemeno che i nostri meccanismi cognitivi che, pare, se ben educati sarebbero in grado di conoscere ‘oggettivamente’ la realtà, sia naturale che umana. Tutto si risolverebbe nel passaggio dalla ‘visione’ all’ ‘osservazione’, la prima casuale, inconsapevole, affrettata, senza obiettivo, luogo della «percezione del fluire amorfo delle cose» [7] e della conoscenza impressionistica; la seconda, al contrario, ci avvierebbe sulla strada della conoscenza vera poiché procede da una «disciplina dello sguardo sperimentata e codificata» [8] per operare una «selezione delle immagini percepite [“viste”] e portarsi su quel piano di “ridotta consapevolezza” in cui il continuum naturale del mondo è segmentato e organizzato dalla griglia delle categorie» [9].
Il passaggio dal vedere all’osservare ci consente di mettere a punto quello “sguardo da lontano” che è la fonte della conoscenza autentica in cui i dati empirici vengono elaborati e sublimati in categorie cognitive che ricostruiscono la struttura delle «formes inconscientes d’une pensée sans sujet» [10].
Questo percorso dall’indistinto al distinto che porta alla capacità di vedere “dall’alto” non costituisce altro che la sintesi dell’epistemologia di Claude Lévi-Strauss, così come ci viene magistralmente riassunta da Nicola Martino. Ma l’antropologo francese non fa che confermare e perfezionare un modello di conoscenza che ha fatto le prime sperimentazioni con il razionalismo seicentesco per arrivare all’apoteosi della coppia empiria-razionalità, emblema del pensiero della modernità, che da Kant si è dipanata e di seguito cristallizzata nel paradigma scientifico positivista che è diventato la “scienza normale” [Kuhn] di schiere di scienziati naturali e – malauguratamente – sociali, che pur appartengono, secondo i manuali, a scuole teoriche diverse e/o divergenti.
«L’evoluzionismo, il particolarismo storico e lo stesso strutturalismo, malgrado le loro profonde differenze, condividono l’assunto secondo cui l’antropologo maneggia del “fatti”. Fatti osservabili, oggettivi, la cui configurazione è indipendente dall’attività del soggetto che li osserva» [11]. Se sostituiamo il riferimento agli antropologi con gli intellettuali in genere o i semplici osservatori abbiamo un quadro del senso comune - o sistema culturale secondo l’accezione di Geertz - che ritiene che l’Osservazione è (non “sia”) la via certa per giungere all’oggettività dei fatti, e tanto forte è questa sicurezza da reificare l’epistemologia, da rendere l’epistemologia quasi tecnologica, sicura via che ha valore e validità in sé [12]. E dalla reificazione dell’epistemologia si transita coerentemente alla reificazione della cultura, ingabbiando i soggetti osservati in identità immobili e immutabili, negandone l’individualità che è di per sé mutevole e molteplice, esaltando le differenze-diversità come fattori negativi che marcano la lontananza da noi civili [13]. È un’operazione che si fa con i “selvaggi”, con i non-occidentali, con – più prosaicamente – con i nostri allievi/e.
La riflessione epistemologica, al contrario, dovrebbe tener presente i limiti della conoscenza così come la forza delle pressioni culturali che danno cornice e categorie all’attività cognitiva, che costruiscono «il meccanismo della norma-sguardo, che si applica, con enormi differenze, in ogni sistema di norme sociali» [14]. La conoscenza va impostata, al contrario, come un processo problematico aperto all’inatteso, ciò che rende il sapere “esitante” [Elias Canetti], mentre la “tecnologia epistemologica” è bloccata dalla certezza che, come sempre, è fonte di equivoco e di sviamento, di negazione del senso stesso della ricerca: la certezza è data dal concepire l’osservazione come un procedimento neutro che perciò sarebbe in grado di ‘riflettere’ fedelmente il mondo e di porci nella condizione di poter costruire teorie che sono vere in quanto basate sulla verità osservativa dei “fatti”.
Tutto troppo facile, troppo semplice, viziato da narcisismo epistemologico. In realtà noi osserviamo mediante i nostri quadri mentali, i nostri modelli culturali che producono categorie [15], non c’è nulla di neutro nel nostro osservare, c’è anima, storia, cultura. La questione epistemologica fondamentale è la questione dell’osservazione che è il vero problema, tanto che, se persiste un deficit di consapevolezza dei nostri pregiudizi e preconcetti cognitivi e della capacità “orientativa” della nostra cultura o, in senso più lato, dei nostri meccanismi culturali, si cade facilmente nelle “trappole osservative” [16] che fanno sì che l’osservazione, per quanto partecipante possa essere, opera delle scelte già nel procedere alle prime classificazioni [17].
Il terzo è l’errore di contesto – o meglio, di disconoscimento del contesto. Partiamo da una citazione di Morin: «Così, dobbiamo apprendere che la ricerca di verità richiede la ricerca e l’elaborazione di metapunti di vista che permettano la riflessività, che comportino in particolare l’integrazione dell’osservatore-ideatore nell’osservazione-ideazione nonché l’ecologizzazione dell’osservazione-ideazione nel contesto culturale e mentale che le è proprio» [18]. Le parole di Morin sono dense ma per niente oscure, proviamo a scioglierle applicandole alla nostra prassi pedagogica.
L’osservazione dei comportamenti degli alunni/e e studenti/esse assume di norma le cadenze di un’osservazione etologica che costruisce una situazione asimmetrica in cui è l’ “uomo” intelligente che guarda gli “animali” istintuali, registrando comportamenti secondo degli items (le voci di un catalogo) predefiniti; l’illusione (errore di conoscenza) sta nel concepire il nostro osservare come un’azione asettica, neutra, in cui noi non siamo coinvolti, stiamo al di qua della macchina da presa, «creature prive di volto, senza connotazioni di carattere sessuale, senza età» [19]. Il nostro “vedere” è indirizzato dalla norma-sguardo, da una «dinamica dello sguardo […] talmente codificata in ogni cultura» [20] che ci induce a classificate, a etichettare, ad arrogarci il «diritto di guardare [che] equivale in molti casi all’esercizio di un potere sull’altro» [21], che vuol portare a norma le diversità.
Come se le aspettative sul e del sistema scolastico, come se la scuola, la classe, i colleghi del consiglio di classe, non formassero un contesto precisamente connotato che dà cornice culturale e normativa alla convivenza di diversità, in cui il feed-back comanda il gioco delle interrelazioni e delle intersoggettività, in un luogo – la scuola – intersecato da dimensioni culturali locali e globali. Noi-insegnanti e loro-allievi/e siamo co-involti in un contesto culturale dinamico in cui si azzuffano e si incontrano-scontrano i diversi quadri di riferimento, un contesto che in parte pre-esiste e in parte viene costruito da interrelazioni comunicative e ideative circolari e a retroazione. La riflessività e il decentramento dell’ego ego-etnocentrico, decisivi per correggere l’osservazione, partono da questa consapevolezza che non comporta il distacco, lo sguardo da lontano, ma la visione di un contesto in cui il noi-loro – gerarchico – si tramuta in un loro-noi per tornare, diverso, non gerarchico, al noi-loro, in un ritmo di interrelazioni che portano a esiti incerti, non prevedibili, iscritti in un’ottica ecologica del nostro agire osservativo: «L’ecologia dell’azione significa […] tener conto della complessità che essa comporta, con i sui rischi, i sui casi, con le sue iniziative, con le sue decisioni, con i suoi imprevisti e richiede inoltre la coscienza delle derive e delle trasformazioni» [22].
Gli “errori” vanno ad aggiungersi alle trappole che, secondo l’analisi condotta da Ziglio e Boccalon, sono almeno di cinque tipi, tra cui io sottolineerei i pregiudizi, le proiezioni e le aspettative, trappole che spesso lavorano in équipe.
scuola a Quetta (Pakistan) foto di Olivia Heussler
Declinando le nostre trappole al mondo della scuola è facile vederle in azione: a) i pregiudizi non hanno solo provocato disastri nella storia dell’umanità (sono responsabili di molti genocidi) ma lavorano costantemente in classe; i nostri pregiudizi, di noi insegnanti, sono abbastanza noti e si riassumono nel giudizio frettoloso ma quasi sempre definitivo che noi diano dei nostri allievi/e “disattenti”, “poco coinvolti”, “menefreghisti”, “scarsamente impegnati”, “superficiali”, “arroganti” e altri simili florilegi che hanno un’efficacia sanzionatoria diretta perché determinano la carriera scolastica – e non solo, c’è di peggio della scuola – di schiere di bambini/e e ragazzi/e. Per non parlare poi dei pregiudizi di genere, il “curriculum nascosto” ben radicato nella trasmissione culturale implicita, di cui parla Callari Galli. Il mio professore di filosofia, al liceo, faceva lezione con il corpo esplicitamente girato verso il gruppo dei maschi, perlomeno lui non fingeva; è molto peggio esaltare in classe, spacciandola per seria ricerca culturale delle nostre, positive e esemplari radici, il valore del prode Achille, un assassino e uno stupratore, come capita di norma nei nostri beneamati istituti classici. Il pregiudizio, naturalmente non si ferma qui, coinvolge gran parte della cultura scolastica che si nutre di certezze, dunque di pregiudizi su cui costruiamo le nostre programmazioni a cui gli allievi/e devono adeguarsi (il potere della “verifica”). Noi non osserviamo dei ragazzi in difficoltà, in confusione, intrappolati anch’essi dai pregiudizi, da una cultura monocorde e cristallizzata, perché la nostra osservazione è già inconsapevolmente intrappolata e la tradizione ci è di conforto come ci sono di conforto i risultati degli studenti/esse frutto della triade patologica “spiegazione-interrogazione-verifica”. La trappola osservativa ci nega come insegnanti dato che il nostro compito consiste/consisterebbe proprio nell’aiutare a superare le difficoltà, a sciogliere la nebbia della confusione, a mettere a nudo i pregiudizi.
b) la proiezione ha perpetrato i maggiori guasti in antropologia. «Descrivendo questa vicenda [lo studio da parte di Lèvi-Strauss dei Bororo del Mato Grosso] si vedrà emergere sempre di più il problema della proiezione delle categorie mentali dell’osservatore sulle culture native e sul modo in cui esse interpretano i rispettivi mondi», e questo problema, commenta Martino, è stato occultato e minimizzato da Lévi-Strauss [23] proprio perché partiva dalla certezza della neutralità ‘veritiera’ dell’osservazione. Ma ciò vale nell’attività di valutazione di qualsiasi mondo che non sia il nostro, di noi adulti colti, occidentali, e nel caso specifico, di insegnanti che, l’ho già detto ma vale la pena di ripeterlo, ci siamo formati in un mondo che non c’è più, quello, al contrario, in cui si sono formati i nostri allievi/e che noi riteniamo debbano pensare come noi: «le proiezioni distorcono la realtà che stiamo osservando perché attribuiamo a contesti culturalmente diversi dei significati che appartengono al nostro paradigma culturale» [24]. Addestrati dalla cultura scolastica che è una grande proiezione del paradigma culturale della “scienza normale” dell’Occidente moderno (fine ‘700 seconda metà del ‘900, circa), non siamo in grado, così intrappolati, di conoscere chi abbiamo davanti perché non si rispecchiano nelle nostre scolastiche modalità culturali, così sfuggiamo a una domanda che dovrebbe essere ricorrente e sempre rinnovata: che scuola stiamo facendo per chi e in quale mondo?
c) le aspettative vanno a braccetto con i pregiudizi che scambiano la realtà con il proprio quadro culturale e tirano in ballo grosse questioni, il normale e l’ab-norme o il deviante, il sano e il pazzo; la trappola-aspettativa ‘produce’ stigma, etichettamento, perché pretende che ci si comporti secondo un ruolo che viene normalmente predefinito. Chi si discosta è ‘out’, è fuori, ab-norme, deviante, pazzo, cattivo scolaro/a, pessimo figlio/a: tutti non hanno rispettato le aspettative. Le aspettative, in un rapporto intersoggettivo come è anche quello formativo e educativo, giocano tutto sulla delusione o la soddisfazione, aspettative soddisfatte o deluse [Luhmann], agendo come «una determinazione culturale della situazione sociale» [25], come controllo sociale che si realizza sempre mediante e nelle organizzazioni. È il “controllo dei corpi”, nel linguaggio di Foucault, in cui si esprime la volontà panoptica, sempre presente anche se ipocritamente smentita, dell’istituzione-organizzazione scuola di cui gli insegnanti – spesso – si fanno agenti attivi imponendo le aspettative di ruolo che se disattese, deluse, producono sanzione. L’organizzazione-scuola esalta, così, la sua funzione di macchina valutativa. Questa è una trappola osservativa che ha conseguenze letali perché colpevolizza chi non ha soddisfatto le aspettative creando pressioni psicologiche, ricatti morali e affettivi devastanti sul piano dell’equilibrio personale. Inoltre ‘disegualizza’ il rapporto interpersonale tra chi ha il potere di controllo (nel nostro caso l’insegnante) e chi è controllato che non ha alcun potere (allievo/a): è un’altra variante dell’insegnamento che ammazza l’apprendimento.
Va, inoltre, detto che la “trappola-base” dell’osservazione consiste nel fatto che si da per scontato che c’è un osservatore che osserva l’altro, l’osservato; a parte l’idiozia epistemologica, non ci si avverte che il gioco avviene in un contesto - la scuola - che porta sia l’osservatore che l’osservato ad assumere comportamenti pre-definiti dalla cultura dell’organizzazione – sempre la nostra scuola – in forme rituali codificate dalla tradizione. Ancora, l’osservatore e l’osservato entrano in un gioco interattivo in cui il ruolo dell’Altro si inverte secondo prospettive necessariamente diverse, di “noi” insegnanti o di “loro” allievi/e. La costruzione dell’Altro come il diverso da noi che osserviamo con oggettività è una bella invenzione del razzismo “tollerante” e della profonda voragine della stupidità con tanto di laurea (non scomodiamo l’etnocentrismo, siamo più terra terra).
Se non ci si pone nell’atteggiamento di essere continuamente smentiti, ‘falsificati’, se non si comprende che le attività osservatrici sono inseparabili dalle attività auto-osservatrici [26], che il proprio sé è co-involto nell’osservazione, non come un fardello ma come una risorsa di conoscenza e di consapevole riflessività, è meglio lasciar perdere l’osservazione, faremmo danni inenarrabili e, quel che è peggio, convinti di aver ragione.
Ferrara, novembre 2004
Leonello Bettin note
[1] L. D’Odorico e R. Cassibba, Osservare per educare, Carocci, Roma, 2001, p. 7. [2] Università di Bologna, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Cattedra di Antropologia culturale, Strumento di osservazione per l’attività di ricerca, dattiloscritto s. d. L’antropologia per insegnare è il titolo del saggio omonimo di Callari Galli. [3] M. Benasayag e G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, trad. it. Feltrinelli, Milano, 2004, p. 116. [4] Prendo a prestito il concetto di “errore” da Carlo Tullio-Altan che parla di “errore sociologistico”, che consiste nel ritenere la realtà sociale come qualcosa di assolutamente separato e in sè autosufficiente, e di “errore cultorologico”, che si manifesta quando si attribuisce alla cultura una separata esistenza ontologica. I due ‘errori’ di Tullio-Altan sono utili guide anche per noi, vedi Id., Antropologia, Feltrinelli, Milano, 1983, p. 151. [5] Ziglio-Boccalon, “Lei vede ma non osserva …”, Utet, Torino, 1996, p. 6. [6] ibidem. [7] N. Martino, L’osservazione in antropologia, in Ziglio-Boccalon, cit., p. 91. [8] ibidem, p. 93. [9] ibidem, p. 92. [10] « forme incoscienti/inconsapevoli di un pensiero senza soggetto », C. Calame, Interprétation et traduction des cultures. Les catégories de la pensée e du discours anthropologiques, « L’Homme », juillet/septembre 2002, n. 163, p. 56. Claude Calame esamina in particolare la relazione tra lo strutturalismo lévi-straussiano e il “principio semiotico dell’immanenza” (p. 58) tipico della semiotica francese, che ha influenzato l’antropologia strutturalista, mediante il quale si passa da un principio metodologico a una teoria della conoscenza, il cui il soggetto conoscente è senza anima, senza cultura, è neutro (p.56). [11] ibidem, p. 104. [12] I concetti di reificazione dell’epistemologia e di tecnologia delle scienze sociali si trovano in C. Geertz, Antropologia interpretativa, trad. it. Il Mulino, Bologna, 1988, pp. 6-8. [13] Sulla reificazione della cultura e la valorizzazione ambigua delle differenze, cfr. G. Mantovani, Intercultura, il Mulino, Bologna, 2004, pp. 13-25. [14] M. Benasayag e G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, cit., p. 74. [15] I risultati della psicologia culturale verranno meglio trattati in seguito sulla falsariga de L’ elefante invisibile di Giuseppe Mantovani. [16] L’espressione è di Martino come di Ziglio-Boccalon. [17] C. Calame, cit., p. 60. Ho preferito tradurre. Claude Calame compie una sorta di antropologia degli antropologi: questi, ritornati da un soggiorno “esotico”con i loro appunti, entrano nella cornice culturale della cultura accademica che diventa il modello irrinunciabile della trasformazione degli appunti in un testo “scientifico”: le norme implicite del Collège de France o della Sorbonne, come i colleghi, hanno una forza attrattiva maggiore dell’esotico. [18] E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, trad. it. Cortina, Milano, 2001, pp. 31-32. [19] Università di Bologna. Dipartimento di scienze dell’educazione. Cattedra di antropologia culturale, L’antropologia e la ricerca del soggetto, dattiloscritto, s.d., p. 4. La citazione fa riferimento all’ingenua fiducia nell’osservazione empirica che ha conquistato molti adepti tra gli antropologi. [20] M Benasayag e G, Schmit, L’epoca delle passioni tristi, cit., pp. 74-75. [21] ibidem, p. 75. [22] ibidem, p. 89. [23] N. Martino, cit., p. 97 [24] Ziglio-Boccalon, cit., pp. 14-15. [25] F. Crespi, Manuale di sociologia della cultura, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 101. [26] E. Morin, I sette saperi, cit., p. 31. |
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