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DISCUTENDO DELLA LEGITTIMITÀ EPISTEMOLOGICA DELLE SCIENZE SOCIALI

 

"In quale mondo siamo chiamati a esercitare il nostro mestiere?
Forse avremmo tutti bisogno di un qualche spaesamento
che rimetta il nostro lavoro entro una cornice più vasta".

M. Rossi-Doria, "Di mestiere faccio il maestro"

 

1. La caduta delle certezze

Nel momento in cui si sta "spingendo" sul Liceo delle Scienze sociali qualcuno, con ammirevole pervicacia, continua a storcere il naso quando sente parlare di un liceo di questo tipo - senza latino e senza pedagogia - e, normalmente, tira in ballo una certezza: le scienze sociali non hanno una base epistemologica certa.

La cosa potrebbe far piacere a chi sostiene la necessità ineludibile della presenze di queste scienze sia nel panorama culturale sia nella scuola della riforma, dato che le riflessioni epistemologiche contemporanee sono giunte alla conclusione che ogni certezza è ormai scomparsa. Non lo sostiene solo llya Prigogine (La caduta delle certezze è il titolo del suo ultimo saggio) ma tutta la schiera degli epistemologi contemporanei - da Lakatos a Feyerabend a Kuhn - che hanno abbandonato la metafisica dell'empiria al suo destino.

L'ultimo tentativo neopositivista di legare la certezza al dato empirico, che si può rintracciare sia nel principio di verificazione del circolo di Vienna sia nel falsificazionismo popperiano, è stato ignorato dalla riflessione scientifica dopo la rivoluzione quantistica e il ribaltamento dei concetto di essere vivente operato dalla biologia molecolare (1).

La fisica quantistica ha mandato a gambe all'aria la presunta verità epistemologica su cui si è costruita la scienza premoderna e moderna, che ha concepito soggetto e oggetto come entità separate, come dati assoluti e costanti, inseriti in uno spazio-tempo assoluto. Secondo questo punto di vista, perciò, sono assoluti e costanti sia le leggi della natura che i percorsi cognitivi che le formulano e, oggettivamente, le verificano, rendendo così definitivamente intelligibili i meccanismi che governano il cielo e la società. In questa visione sostanzialmente fissista rimangono impaniate, anche se per ragioni diverse, tutte le elaborazioni filosofiche proposte a cavallo tra il Settecento e la prima metà dell'Ottocento, che, per l'inerzialità tipica di ogni Weltanschauung, ci ritroviamo ancora oggi tra i meandri dell'Università e della scuola.

L'epistemologia assoluta, con le sue solide basi metafisiche, è entrata in crisi a partire dagli anni '20-'30 quando la fisica quantistica ha ribaltato la pratica scientifica e l'epistemologia tradizionale colpendola nel suo nocciolo duro. Da Bohr a Heisemberg a Einstein provengono le bordate più efficaci: soggetto e oggetto perdono la loro separatezza assoluta, ne derivano l'impossibilità di una rigorosa separazione del mondo in soggetto e oggetto [Heisemberg] e l'impossibilità teorica e pratica di fornire una descrizione veritiera e definitiva dei fenomeni naturali, che perdono anche il loro aggancio sicuro a uno spazio-tempo non più assoluto.

Le ipotesi della teoria dei quanta e della relatività einsteiniana sono state accettate ormai da tempo dalla comunità scientifica e hanno delineato il modello di una nuova epistemologia che potremmo definire metodologica o sperimentale (2) o complessa (3).

La nuova epistemologia si svincola dalla tirannia tranchant del dato empirico - autentico grumo metafisico - dalla sua oggettività vincolante perché esterna al soggetto, da normatività "cosali" che pretenderebbero di essere definitive, mentre non sono né esterne né estranee al nostro modo di costruire la conoscenza e di categorizzare.

Le "cose", i dati empirici con la loro alterità fatta di certezze, sono il risultato proiettivo del nostro bisogno di stabilità di ancoraggio solido, come l'alternarsi sempre uguale delle stagioni che non genera noia ma, al contrario, rassicura perché si sa già cosa ci aspetta. L'urgenza che l'altro da noi sia certo ci ha condotto a reificare i concetti, ad assimilarli alla sicurezza delle cose. Le conseguenze gnoseologiche della scoperta dei quanta demoliscono il certo, aprono all'insicurezza.

La sperimentazione scalza l'esperimento, la pratica di ricerca metodologicamente controllata si sostituisce alla pretesa di formulare teorie assolute tramite un esperimento probatorio. Nella prospettiva della nuova epistemologia la sperimentazione produce l'inatteso [Allègre].

Esiste un'altra strada che perviene alle medesime conclusioni, è quella tracciata da Piaget. La psicologia dello sviluppo spiega come la crescita del bambino sia nel contempo una costruzione progressiva dell'oggetto e degli strumenti cognitivi che ne permettono la costruzione-conoscenza. Piaget ci mostra, tramite la ricerca guidata dall'epistemologia genetica (4) che costruiamo noi stessi che costruiamo il mondo [Sobrero]: il processo di costruzione del mondo interno e dei mondo esterno è uno e indistinguibile.

Seguendo il colloquio clinico di Piaget con i bambini, si vede bene come le nozioni di spazio, tempo e velocità, di permanenza, di causalità, di classe, di serie, sono costruiti con e tramite gli oggetti. Ancora, inscindibilità del processo, costruzione di noi che costruiamo il mondo. Inoltre, Piaget ci insegna che i meccanismi cognitivi si costruiscono mediante l'azione e traggono vita dall'affettività; si viene delineando, così, un modello di essere umano unitario e complesso insieme, che arricchisce di interazioni e emozioni il processo di costruzione di noi che costruiamo il mondo, allontanandoci in via definitiva dall'epistemologia dell'assoluto (o della Verità, come dicevano un tempo i filosofi).

Se, poi, "incrociamo" Piaget con Vygotskij, spostiamo l'analisi ancora in avanti, poiché il contesto in cui si costruisce il soggetto conoscente e il suo mondo è culturalmente connotato. Dunque, noi e il nostro mondo ci costruiamo in un ambiente socialmente e storicamente semantizzato che fa da filtro e da percorso alla formazione del sé e del mondo: perché mai, infatti, gli aristotelici non "vedevano" le macchie della Luna per quello che sono? Per fare un altro esempio, non è corretto dire che i Greci ritenevano erroneamente che la Terra fosse piatta; se per loro la Terra era piatta, lo era, e basta.

Con Vygotskij la costruzione di noi che costruiamo il mondo si innesta nelle determinanti storico-sociali in cui si compie quest'operazione, di conseguenza i modelli cognitivi e il mondo che essi costruiscono e attraverso cui si costruiscono sono culturalmente connotati, perciò diversi, sia diacronicamente che sincronicamente. Le ipotesi dello psicologo russo sono state confermate dalle indagini della psicologia sociale, della psicologia culturale (5), della sociologia e, soprattutto, dall'antropologia culturale.

Con la "mediazione" culturale in cui siamo immersi noi e il nostro mondo, la Verità si perde nelle nebbie dell'ideologia, così come soggettività e oggettività diventano dei ferrivecchi obsoleti (6).

Gli anni '20-'30 durante i quali si forma il pensiero di Piaget e Vygotskij, Weber aveva introdotto il concetto di possibilità nella spiegazione sociologica e introdotto un punto di vista multimotivazionale e conflittuale per spiegare l'agire umano, Herbert Mead legava la costruzione della personalità al gioco simbolico - e perciò culturalmente semantizzato - delle interrelazioni sociali, Boas aveva sganciato il concetto di cultura dall'etnocentrismo teleologico a cui lo avevano incardinato Tylor e Morgan, recuperando alla storia i cosiddetti primitivi e mandando all'aria la distinzione, venata di razzismo, tra storia e preistoria, Louis Gernet lavorava ad Algeri all’antropologia della Grecia antica e soprattutto all’antropologia del diritto antico, dando vita a quella linea di studio da cui deriverà l'Ecole de Paris (Vernant, Vidal-Naquet), la scuola che ha prodotto studi definitivi di antropologia antichistica, Freud legava la psiche alla sua propria storicità e ne dinamizzava la costruzione conflittuale, ecc.: la prima frattura delle certezze del sapere "scientifico" sarebbe incomprensibile senza il contributo delle scienze sociali che producono un'epistemologia della sperimentazione, del metodo, della complessità.

Torniamo per un attimo a Vygotskij perché lo psicologo russo ci è utile per un'altra questione. Egli ha affrontato in modo del tutto nuovo il problema delle basi fisiologiche del comportamento umano, lavorando sull'ipotesi che il cervello non sia strutturato in modo stabile e per aree specializzate in singole funzioni, ma sia plastico e flessibile, e che i neuroni si organizzino in modo interrelato per assolvere varie funzioni. Vygotskij ha lavorato a stretto contatto con i neurologi della facoltà di medicina di Mosca negli ultimi anni della sua vita (è morto nel '34) spinto dalla constatazione della plasticità del cervello nell'adattarsi alle nuove condizioni create da un handicap; ad esempio, i bambini sordomuti imparano a esprimersi attraverso il linguaggio dei segni e ciò implica un riadattamento delle funzioni cerebrali: biologia e biografia sono, come dirà Sacks, direttamente interrelate (7).

La neurologia contemporanea ha da tempo verificato le intuizioni di Vygotskij, Da Edeiman in poi si ritiene che il cervello non abbia struttura stabile, ma sia organizzato per gruppi di neuroni che, di volta in volta, collaborano ad assolvere funzioni psichiche; ad es., la base neuronale della percezione non è data né da aree specializzate né da singoli neurmi, ma da gruppi neuronali (teoria del Darwinismo neuronale o della Selezione dei gruppi neuronali).

Ho accennato, di corsa, a queste problematiche perché in questi giorni è ritornato a farsi vivo il fantasma delle "basi empiriche" di cui la psicoanalisi sarebbe sprovvista: dunque via dalla scienza che è quella cosa seria che ha le "basi empiriche" (che, in questo caso, naturalmente sono neurologiche). Karl Popper farà salti di gioia nella tomba.

Sembra di sognare. Il lavoro onirico ci porta in pieno Ottocento quanto si sezionavano i cervelli dei pazzi alla ricerca dello schizococco (8). Dogmatismo e rozzezza scientifica vanno spesso a braccetto nelle neuroscienze.

Ritorniamo al Vygotskij storico-culturale, per ricordare la fecondità euristica di questa linea di ricerca che ha trovato in Thomas Kuhn il suo rappresentante più coerente; l'epistemologo americano ha, infatti, usato le scienze sociali come strumento di indagine privilegiato per venire a capo del problema delle epistemologie storiche delle scienze della natura. La certezza e la verità è, dopo Kuhn, una questione di paradigma cioè di legittimazione culturale di una visione del mondo che trova sintesi in un complesso di teorie "scientifiche" (9).

Nello scenario della contemporaneità nel quale la scienza non parte da certezze né mira alla verità (e a cui fa da pendant il ripiegamento della filosofia nei villaggi dell'etica e dell'ermeneutica), il dibattito epistemologico ha di necessità perso corpo e, in ogni caso, ci si muove con molta prudenza su questo terreno perché la ricerca riveste sempre più un peso socio-politico. Forse ha avuto un effetto di qualche portata il fatto che la banda dei quattro, Popper/Kuhn/Lakatos/Feyerabend, siano stati criminalizzati come cattivi maestri nell'Inghilterra dell'ineffabile signora Thatcher (10).

I linguaggi dell'epistemologia ora usano parole-concetti quali razionalità limitata, intelligenza emozionale, incompletezza dei sistemi, intelligenze multiple (11), concetti nomadi, ecc.

Tolta dal suo scranno fatto di certezze e di "basi empiriche", rimane il senso non epifanico della ricerca epistemologica, che continua a richiamarsi alla necessità del controllo delle procedure cognitive, della riflessione sui limiti e la fondatezza dei saperi, della ricerca sulle condizioni di validità di un'argomentazione euristicamente significativa e efficace: il tutto sottoposto alla vigilanza critica dell'antropologia che richiama le determinati storico-culturali dei saperi e delle procedure cognitive (12).

La scienza umane, infatti, ma diviene un percorso razionalmente comunicabile che costruisce ipotesi e modelli che non degenerano in verità indiscutibili né si appiattiscono sul chiacchiericcio degli intellettuali da talk-show.

La scienza ritorna al suo senso semanticamente originario di ricerca che dipana realtà complesse, della natura e della società e degli individui, che decodifica fenomeni, che ripristina quadri di riferimento convincenti: apre orizzonti, non chiude sipari.

 

2. Divagazione sul vasto mondo in compagnia delle scienze sociali

La società contemporanea complessa, o post o sur-modema o post-industriale o post-fordista che sia, ha introdotto elementi di discontinuità rispetto all'assetto apparentemente definitivo della modernità.

Il moderno (13) ci ha elargito certezze in tutti i campi, un solido senso dei tempo e dello spazio, stabilità nazionali, lavoro in espansione, coesione sociale, concorrenza tra nazioni più che giobalizzazione. La modernità, inoltre, ha consolidato la struttura analitico-sequenziale della conoscenza [Simone] e ha costruito un modello indiscusso di razionalità, mutuato dal meccanicismo deterministico della scienza e dal calcolo capitalistico dei costi/benefici, una razionalità tanto carica di normatività da creare il deviante, la figura più tipica della sociologia filistea dell'Otto-Novecento.

Il post-industriale sta producendo la società dell'incertezza [Bauman], la scotomía dei non-luoghi [Augé], l'instabilità delle migrazioni, l'indecifrabilità dei lavori (vs. il Lavoro) [Accornero] e l'angosciosa competitività della flessibilità [Sennet], l'urgenza etica della marginalità sociale [Marco Rossi-Doria], la dissoluzione come ceto e come progetto culturale sia della classe operaia che della borghesia (anche dei borghese post-weberiano e dell'operaio-massa).

Se la modernità ha esaltato la forza utopica dell'ideologia, ora ci troviamo immersi in un pragmatismo senza progetto, e lo slancio prometeico della conoscenza si è degradato nell'esaltazione dell'informazione (dai centri di ricerca alla inconsapevole stupidità da navigatori di Internet). La fuoruscita dalla modernità ha coinciso con la rottura della sequenzialità cognitiva introducendo la simultaneità, la sintesi indistinta, che ha scalzato l'analisi, che ha agganciato la visione all'udito rendendo il paziente lettore una figura obsoleta [Simone]. Il post-moderno ha mostrato la faziosità autoritaria della razionalità assoluta che non è altro che la forma presentabile in società del dominio dell'economia, della forza decisionale della grande finanza (14).

La modernità ha scippato il cosiddetto Terzo mondo della sua economia senza includerlo nel nostro modello economico (15), in sostanza ha distrutto persone e territorio. Il post-industriale prosegue e perfeziona l'opera tagliando fuori i paesi poveri dai flussi di informazione garantiti dalla tecnologia informatica e globalizzando solo il mondo a capitale avanzato, lasciando, inoltre uno strascico di marginalità crescente all'interno delle stesse società della ricchezza e dello spreco. Secondo una ricerca O.N.U. il numero degli obesi delle società occidentali ha pareggiato il numero degli indigenti del Terzo mondo: non sono calati i sotto-alimentati, sono cresciuti gli obesi.

Siamo passati dalle grandi guerre del Novecento a una guerriglia quotidiana, senza cannoni né mitragliatrici, che lascia e lascerà sul campo milioni di morti sia in forma di cadaverini scheletrici che di out, fuori gioco, esclusi, espulsi, ghettizzati.

Il discorso, ovviamente, dovrebbe proseguire, ma la questione da cui sono partito e le inquietanti obiezioni del nostro irriducibile oppositore mi mettono fretta.

Quando si chiude il moderno e prende avvio il "post"? Con Auschwitz, dove con gli ebrei e gli zingari e morto dio? Con la bomba atomica sganciata sulla testa dei giapponesi? Con l'organizzazione industriale anti-fordista della Toyota? Con la comparsa dei microprocessori e dei micro-chip, di cui è figlia la new economy? Con la crisi del Welfare state? Ci sta dentro tutto, non si può operare una scelta secca. I fenomeni di cambiamento radicale sono sempre complessi e complessivi e non seguono il principio di non contraddizione dei non compianto Aristotele.

La questione è: che tipo di risposta formativa sono in grado di dare i sistemi scolastici europei alla mutazione antropologica, cognitiva e esistenziale introdotta dal "post", senza imbambolarsi sulla tastiera di un computer?

 

3. Torniamo a scuola

Nonostante il sistema scolastico sia in movimento, permane un netto scarto tra il sistema stesso e le profonde trasformazioni sociali in atto [Touraine]. Il quadro della società complessa "post", infatti, muta il senso e gli obiettivi della formazione e perciò induce di necessità a un cambiamento, a un ripensamento radicale, che è privo di alternative: difendere l'esistente significa imboccare la via dello scacco.

Nel nostro paese le prospettive non sono ancora ben chiare.

Da una parte si cambia. A partire dalla fausta chiusura dell'Istituto magistrale, sono stati introdotti il nuovo esame di Stato. l'autonomia e la riforma dei cicli. Ma sono ancora stanze vuote, diventa decisivo l'arredamento e da quel che traspare, sembra che si vadano a acquistare i mobili a Cerea (vero falso antico): un trumeau classico-umanistico con tatto di iscrizione in latino, una dispensa primo Novecento scientifica, una cassettiera "stile ufficio" scientifico-tecnologica, un leggío intarsiato artistico-musicale.

Insomma, se da una parte di vorrebbe cambiare, dall'altra si fa resistenza al mutamento. Il messaggio che viene dal "centro" sembra essere un passo avanti e uno indietro.

All'atteggiamento della burocrazia ministeriale fa da pendant la resistenza messa in atto da un personale scolastico culturalmente demotivato che si fa forza della tradizione, che aborre le modificazioni strutturali che spalancano le finestre e raffreddano il cantuccio caldo e sicuro dell'eterna prassi scolastica. I passaggi sono pericolosi perché mettono in discussione la realtà stessa (come fa la devianza) [Berger e Berger].

È sufficiente fare un piccolo sondaggio sulla predisposizione al cambiamento da parte degli insegnanti nei riguardi di quell'istituto nuovo che è l'esame di Stato. Se non ci sono in giro autorità da assecondare per quieto vivere, un grido all'unisono sorge dalla folla: interrogare! Alla faccia dei colloquio pluridisciplinare.

Non è solo questione di insegnanti - non diamoci sempre la croce addosso - è l'insieme della struttura che resiste, al di là di qualsiasi intenzionalità. La scuola è una organizzazione rigida, un sistema chiuso e autoreferenziale, cristallizzata nelle proprie funzioni.

La domanda - da anni '70 - sul senso di ciò che si fa a scuola in rapporto al mondo che ci è attorno e che muta, è stata da tempo metabolizzata. Se non si rompe la rigidità autoreferenziale dell'organizzazione anche l'autonomia sarà fagocitata. Qualche modulo, qualche giochino con l'orario, qualche progetto magari accompagnato da un bel ipertesto e basta: come dire, nulla di nuovo all'orizzonte.

Ci si limita a difendere la posizione, che è precaria perché è sottoposta a un duplice rischio: che il sistema formativo si allontani sempre più dalla società o che ci sia un tale attacco alla trincea da spazzare via tutto, anche quel residuo di autonomia culturale che si cerca di mantenere in vita nelle - brutte - aule scolastiche.

Le risposte positive, per così dire, al cambiamento sono di norma di due tipi. 0 si opta per una giustapposizione paranoica tra obsolescenza ( = tradizione) e frenesie informatiche (atteggiamento che un tempo si definiva "dietrismo") o si punta sull'uscita di sicurezza didatticistica (i contenuti sono quelli [?] basta modularizzarli e, hoplà, si cambia).

Rimane inevasa la risposta alla questione del senso complessivo che deve assumere (o tentare di assumere) il sistema formativo a fronte della "nuova" contemporaneità.

Facciamo, perciò, una breve e impietosa incursione nell'esistente per ricordare qual è lo stato delle cose.

a) L'asse culturale della scuola italiana è la tradizione, che si decina nella linea storico-filosofico-letteraria, con variante pedagogica del defunto (speriamo) indirizzo magistrale. Il perno è la storia, la storia del passato che assume la tradizione come fattore fondante-fondativo. li concetto di storia che gira per le aule scolastiche è pre-illuministico, dunque pre-moderno (16). Può fornire un buon esempio il Rinascimento, un topos classico dei nostri programmi (anche per ragioni inconfessabilmente patriottiche). Il Rinascimento è la grande svolta, l'uomo riconquista la sua centralità, la natura è studiata iuxta propria principia, e bla bla bla. È sintomatico il fatto che si dimentichi che i nostri rinascimentali cercavano il loro marchio doc nella tradizione greco-romana: la tradizione come fonte di legittimità.

b) La questione sta proprio qui: l'asse culturale della scuola italiana si legittima con e nella tradizione. Non c'è alcun fondamento epistemologico. Anzi, la critica epistemologica pone quest'asse nel mondo dell'opinione o, meglio, lo definisce un paradigma culturale, il che sarebbe più che dignitose se non fosse che il nostro paradigma è malato di torcicollo, guarda sempre all'indietro.

c) La rigidità dell'organizzazione scolastica è data anche dal fatto che la scuola italiana è rimasta sostanzialmente immutata, rispetto al sistema delineato da Casati (1859) e da Gentile (1923); i mutamenti sono stati di superficie nonostante: l'Unità d'Italia, il fascismo, la Resistenza, la Repubblica, il violento processo di modernizzazione degli anni '50-'70, l'uscita dalla modernità almeno da vent'anni.

C'è dunque poco di che andare orgogliosi e poco o nulla da salvare. Per iniziare a ridefinire una asse culturale che dia risposte alla contemporaneità, va introdotto come condizione imprescindibile un deciso fattore di discontinuità che permetta la ridefinizione dei saperi secondo un criterio di capacità esplicativa.

In questa prospettiva noi riteniamo che:

a1) si debba assumere la centralità delle Scienze sociali poiché sono la cultura della discontinuità (rompono tra pre-modemo e moderno, prospettivizzano il moderno costruendo elementi di comprensione del "post");

a2) le Scienze sociali possiedono strumenti epistemologici e di decodifica della contemporaneità complessa e non subiscono la logica dei sapere definitivo (17);

a3) hanno un impianto epistemologico solido sia come discipline aggregate (l'oggetto è la società complessa, il metodo è l'osservazione selettiva, le teorie-ipotesi si basano su una scientificità antipositivistica, dove la verifica non assume una valore definitivo e assertorio, l'oggetto complesso produce un feed-back che implica "sorveglianza" sulle procedure delle scienze sociali) sia come scienze specifiche, tanto da aver instaurato una tradizione, con i suoi classici e i post-classici;

a4) hanno una decisa propensione alla trasversalità culturale e didattica contribuendo a superare le rigidità autoreferenziali delle discipline scolastiche e non;

a5) l'epistemologia delle scienze sociali può essere sintetizzata in una definizione: è una prassi di ricerca comparativa e, dunque, contiene in sé l'indicazione delle competenze sia come strutture mentali che come strunenti di padroneggiamento (18).

La sicurezza circa la validità dell'impianto epistemologico delle Scienze sociali non basta, non è dato di per sé propositivo. Va rintracciata e definita una epistemologia didattica delle scienze sociali. All'interno della ridefinizione dei compiti formativi di una scuola rinnovata che deve ripensare la struttura dei saperi.

Per epistemologia didattica intendo il processo di costruzione di un'ottica propria delle Scienze sociali che è riassumibile come segue: "spostare" il senso di problematicità dai prodotti astratti alla durezza della realtà contemporanea, ripercorrendone la cultura (in senso antropologico); assimilare la percezione della complessità dei problemi e adottare un atteggiamento di studio conseguente; utilizzare una strategia fondata sulla pazienza, necessaria data la complessità dei problemi; assumere un atteggiamento di prudenza, fondata sulla consapevolezza che la conoscenza è un processo non a termine; assumere la differenza e la diversità come valori, all'interno di una concezione etica dell'apprendimento che è un processo sociale [Dewey].

Ferrara, marzo 2000

Leonello Bettin

 

note            

(1) Edgar Morin si batte da anni per un superamento dell'antagonismo tra natura e cultura, al di fuori di un'ottica banalmente olistica; il sociologo francese dice che bisogna guardare all'Ottocento quando la rottura tra i due ambiti non si era ancora prodotta: egli pensa sicuramente a Comte, a Marx che sosteneva che l'espulsione dalla storia del rapporto uomo/natura ha prodotto l'antagonismo tra natura e cultura (in L'ideologia tedesca, trad. it. Editori Riuniti, Roma, 1960, p. 31), ma soprattutto ha in mente Darwin che ha immesso la natura nella storia. Cfr. E. Morin, Il paradigma perduto, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1994. Anche Callari Galli sostiene che il rapporto naturalcultura deve essere rivisto alla luce delle nuove ftontiere aperte dalla biologia e dalla cibernetica, "il rapporto natura/cultura assume connotazioni circolari", in M. Callari Galli, Lo spazio dell'incontro, Meltemi, Roma, 1996, p. 13. [torna sopra]

(2) La definizione "epistemologia sperimentale" è del neurofisiologo Warren McCulloch ed è stata usata negli ambienti del radicalismo olistico di Bateson e degli altrettanto olistici sistemi autopoietici di Maturana e Varela. Depurata da questo legame con una nuova versione di verità assoluta - l' "unità necessaria" di mente e natura [Bateson]- l'espressione è efficace per la sua opposizione al verificazionismo. [torna sopra]

(3) Per epistemologia complessa si intende la strategia di conoscenza adeguata a una realtà naturale, sociale e psicologica complessa, cioè resa più difficile da comprendere proprio a seguito, paradossalmente, dell'avanzare delle conoscenze e dalla contemporanea perdita di certezze. Usando l'espressione "epistemologia complessa" non intendo per nulla rinviare al feticcio mistico della complessità in cui, in nome dell'unità del vivente, si va dall'inno dell'indistinzione al quel supermercato per ricchi che è la new age, azzerando distinzioni, differenze e diversità che sono il sale della terra. [torna sopra]

(4) Possiamo aggiungere genetica alle altre definizioni della nuova epistemologia. [torna sopra]

(5) Ricordiamo che Jerome Bruner, il rappresentante più noto della psicologia culturale, fa pubblicare Pensiero e linguaggio dalle MIT Press di Chicago nel 1962, quando Vygotskij era ancora completamente sconosciuto [torna sopra]

(6) Sulla "mediazione" culturale della conoscenza vale la pena di citare un pensatore oggi fuori moda, Karl Marx che nell'Ideologia tedesca dice: "Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti", cit., p. 12. [torna sopra]

(7) Oliver Sacks riferendosi all'opera di Lurija dice: "Egli insisteva sulla genesi storica delle funzioni cerebrali superiori e sulla necessità di "una nuova biografia storica" per la loro comprensione", in 0. Sacks, Neurologia e anima, in "La rivista dei libri" , n. 1, aprile 199 1, p. 25. Il neurologo americano si riferisce a Lurija perché probabilmente non conosce l'opera di Vygotskij mentre fu proprio quest'ultimo ad affermare la necessità di ripensare in senso storico-culturale le funzioni cerebrali. Lurija che gli sopravvisse, perfezionò il lavoro e lo rese noto alla cultura occidentale. [torna sopra]

(8) Le ultime esequie della psicoanalisi le celebra Gilberto Corbellini nell'introduzione al volume di Jervis Il secolo della psicoanalisi. Ne è seguito un interessante e per certi versi divertente dibattito nell'inserto domenicale de "Il Sole-24 ore". Tra le altre cose, Mario Rosati Monti, psicoanalista, cita un articolo apparso su Science nel '97 - e ancora non smentito - in cui si dice che non vi sono maker diagnostici conosciuti per alcuna malattia mentale, ad eccezione delle demenze, in "Il sole-24 ore" del 23.1.2000. [torna sopra]

(9) L'epistemologia, cioè a dire il complesso dì oggetto, metodo di indagine e criteri di fondatezza delle conoscenze, non è una ma molte, in quanto si "realizza" in diverse soluzioni storicamente determinate attorno a un paradigma condiviso, infatti, "ciò che uno vede dipende sia da ciò a cui guarda, sia anche da ciò che la sua precedente esperienza visivo-concettuale gli ha insegnato a vedere", in T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, trad. it. Einaudi, Torino,1995, p. 141. [torna sopra]

(10) La cosa è anche un po' buffa perché Popper era un fan della Thatcher e Lakatos, dove aver frequentato le patrie galere a Budapest, era diventato uno sfegatato filo americano. [torna sopra]

(11) Sulle intelligenze multiple di Howard Gardner bisognerebbe soffermarsi poichè la "moltiplicazione" dell'intelligenza ha avuto un effetto dirompente rispetto alla visione univoca di razionalità che ha dominato il pensiero occidentale, mandando in soffitta tanto chiacchierare supponente e dogmatico che ancora noi, scolasticamente, onoriamo. Cfr. H. Gardner, Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell'intelligenza, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1985. [torna sopra]

(12) Anche le scienze sociali devono essere sottoposte a questa vigilanza critica in modo da non proporsi come sapere autosufficiente, evitando quelli che Tullio-Altan chiama "errore sociologistico" e "errore culturologico", in C. Tullio-Altan, Antropologia, Feltrinelli, Milano, 1983, p. 151. [torna sopra]

(13) Qui assumo il concetto di modernità nell'accezione sociologica per cui con questo termine si indicano i cambiamenti complessivi avvenuti in Europa e in Nord America tra la fine del Settecento e gli inizi dell'Ottocento a seguito della Rivoluzione Francese e della Rivoluzione industriale, periodo storico che convenzionalmente si fa terminare negli '70-'80 del Novecento. [torna sopra]

(14) Sergio Ricossa ridicolizza la presunta razionalità delle leggi economiche e annota, tra l'altro, "matematici ed economisti si sono affannati ad elucubrare teorie delle scelte razionali nell'incertezza: la nuova Smorfia scientifica", in "Il sole-24 ore", 20.2.2000. [torna sopra]

(15) Il comando economico-politico del mondo è nelle mani del gruppo G7 alle cui riunioni viene ogni tanto inviata la Russia, più per nostalgia del Grande nemico che per il peso reale che quella devastata terra ha. Ma non mi pare che inviti del genere siano stati inviati ai paesi dell'Africa o dell'America Latina. [torna sopra]

(16) Tocqueville dice, in La democrazia in America, che per comprendere la realtà che gli stava di fronte ha fatto ricorso alle risorse del passato, di ogni epoca, di ogni luogo, e non ha trovato nulla che gli potesse essere utile alla comprensione: di fronte alla modernizzazione il passato ha cessato di far luce sul futuro. [torna sopra]

(17) Mi piace ricordare l'idea che Dewey ha di educazione democratica, che è un processo aperto in cui si costruisce il futuro nel presente, con i ragazzi/e protagonisti della scena pedagogica. [torna sopra]

(18) Intese come strutture mentali: capacità di comprendere i meccanismi di fondo dell'agire individuale e collettivo, prendere decisioni e progettare e scegliere in modo efficace il proprio futuro, capacità di orientarsi nell'ambiente più diretto o nello spazio più esteso al fine di raggiungere un equilibrio dinamico con la propria realtà sociale. Intese come padroneggiamento: capacità di riconoscere le diverse prospettive disciplinari nell'analisi dei fenomeni sociali, capacità di ricondurre i fenomeni socio-economici ai bisogni fondamentali di una società storicamente determinata, capacità di stabilire buone relazioni a partire da una discreta conoscenza di sé e dei propri punti di forza e di debolezza, capacità di progettare un intervento in una realtà esterna, di costruire uno strumento di osservazione, capacità di muoversi all'interno di alcune istituzioni, di stare in gruppo, di cooperare e, in certe situazioni, di gestire un team di lavoro, capacità di riesaminare, alla luce dell'esperienza pratica, le conoscenze acquisite a livello teorico, capacità di restituire i risultati con strategie comunicative efficaci in relazione al tema, al destinatario e alla funzione. [torna sopra]

 

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