Mestieri e usanze popolari

Immagine storica di pescatori di valle (F)Nei comuni del Delta gli abitanti restarono a lungo poco numerosi e, per tutto l’800, vissero una vita di miseria e di paura rappresentata dalle tragiche alluvioni del Po. Per uscire dal Delta bisognava attraversare almeno uno dei rami del fiume ricorrendo solo alla barca, poiché non esistevano ponti che congiungessero le sponde opposte come accade oggi, e questo rendeva difficili i rapporti commerciali e le relazioni con le popolazioni extra-deltizie. In questo clima di isolamento, di miseria e di spavento, la popolazione del Delta si è data delle usanze caratteristiche.

Un tempo la principale risorsa economica locale era la canna di palude (Phragmites australis), utilizzata per confezionare le “grisòle” (stuoie) richieste dall’edilizia. Oggi la raccolta delle canne è quasi scomparsa; essa veniva effettuata per lo più lontano dai centri abitati e, per tradizione, il rientro avveniva la vigilia di Natale che, così, diveniva per tutti una festa particolare. In quest’occasione era consuetudine osservare il digiuno penitenziale: non ci si sedeva a tavola fino a sera ma, arrivata la notte, in tutti i casoni si mangiavano orate e cefali arrostiti alla graticola, calamaretti fritti e anguilla in umido, serviti con l’onnipresente polenta e pan biscotto. Il dolce tipico era la “smgiassa”, cotta sotto la cenere e preparata con polenta, zucca, pinoli e uva secca. Dopo cena, le famiglie più vicine si riunivano per il gioco della tombola.

Il giorno di Natale tutti andavano alla Santa Messa indossando il vestito della festa e, al ritorno, il pranzo era tipicamente rappresentato da riso in brodo e pollo lesso. I ragazzini erano solitamente vestiti con una rozza giacca da uomo e ai piedi portavano degli zoccoli di legno (i “cosp”). Gran parte della popolazione era analfabeta e, spesso, cadeva vittima della malaria e della pellagra; l’assistenza medica, infatti, era ridottissima, data la precarietà dei mezzi di comunicazione. Il traghetto, chiamato “passo”, era costituito da una barca e funzionava solo di giorno e con la buona stagione. Verso la fine dell’800 il “passo” venne trasformato in “passo doppio”, unendo due barche e sovrapponendovi una piattaforma, così da poter trasbordare, oltre alle persone, anche i carretti e i barroccini. Le strade, di cui le principali corrispondevano ai dossi e alle sommità arginali, erano estremamente disastrate, polverose d’estate e fangose d’inverno. Ciò, comunque, non scoraggiava chi aveva deciso di recarsi alle fiere di luglio e agosto, i mesi delle sagre e quelli in cui si festeggiava il Santo Patrono. Le sagre si svolgevano in questa stagione per il bel tempo e vi si potevano trovare le bancarelle di dolciumi e bibite colorate, le giostre con i cavalli, il tiro a segno e i “bibitai” con gassose. Queste manifestazioni erano molto affollate: gran parte della gente dei paesi limitrofi accorreva fin dal primo pomeriggio, per rientrare alle proprie case solo dopo il lancio dei fuochi d’artificio.

Immagine storica dei lavori di mietitura (F)In estate il lavoro più redditizio era la mietitura. I proprietari terrieri, già a febbraio, assoldavano un certo numero di uomini (i più forti e in buona salute date le difficoltà del lavoro) che, a fine mietitura, venivano corrisposti con la “meardatetatera”, cioè una prestabilita percentuale di grano, oltre alla paga, che poteva variare a seconda del lavoratore e del proprietario. Per festeggiare la conclusione dei lavori si consumava la “ganzega”: i braccianti stavano all’aperto e su grandi tavole imbandite, mangiavano i “bigoli in salsa”, il pan biscotto e bevevano vino. La festa era riservata agli uomini, mentre le donne dovevano andare a spigolare, cioè a raccogliere le spighe residue che i mietitori avevano lasciato sul campo.

Immagine storica degli scarriolanti (CB)Un mestiere molto praticato, specialmente d’inverno, era quello dello “scarriolante”, ossia di coloro che si recavano in luoghi lontani muniti di carriola e badile a scavare fossi e canali di bonifica. La paga era giornaliera e variava dai 60 agli 80 centesimi di Lira; la lunga fila degli scarriolanti partiva all’alba e tornava al tramonto. L’estenuante lavoro terminava verso le due del pomeriggio perché i braccianti erano sfiniti e non rendevano più. Un tempo esistevano altri lavori, oggi scomparsi, come quello del maniscalco e dello spazzacamino. Questi ultimi arrivavano all’inizio dell’inverno dalle montagne e ripartivano alla fine della Quaresima. Erano sempre in due: un adulto, che saliva sul tetto, e un ragazzo che entrava nella canna del camino.

La presenza degli spazzacamini convinceva i bambini dell’esistenza della “vcéta” (la Befana), per la sua nota caratteristica di scendere dal camino per portare i doni. Diversi giorni prima dell’Epifania i ragazzi, su consiglio delle madri, andavano a raccogliere legna secca e la mettevano vicino al focolare, in modo che la “vcéta”, una volta arrivata, potesse accendersi il fuoco e scaldarsi. Ogni casa aveva un focolare, di solito era posto a sud e occupava mezza parete. Esso serviva per riscaldarsi e per cucinare; sul piano del camino c’era la graticola per arrostire il pesce e abbrustolire la polenta, mentre sul fuoco pendeva una catena a cui era appeso il paiolo per cuocere la polenta o la minestra. In inverno si usava riunirsi tutti intorno al focolare quando, a causa del maltempo, non solo i contadini ma anche i pescatori rimanevano a lungo inoperosi. Ci si radunava “a filò” (a chiacchierare) da qualche famiglia amica, portando delle pannocchie che, una volta lessate, si trasformavano in gustose “pèreppepè”. Altro luogo di ritrovo era l’osteria, unico posto in cui arrivava il giornale, sulle notizie del quale si poteva discutere per ore. Nei paesi del Delta, di tanto in tanto, si fermavano anche dei burattinai, che raccontavano fiabe sia per bambini che per adulti.

Nella notte di S. Silvestro erano poche le persone che riuscivano a dormire, infatti, piccole comitive si aggiravano al buio di aia in aia per fare gli auguri a tutti: “bon gioran, bon’an, salùt e bon guadagn”. Vi era pure chi suonava il violino e chi la fisarmonica. Il mattino dopo le case erano prese d’assalto dalle allegre combriccole e dai ragazzi che, per le loro manifestazioni augurali, ricevevano in cambio delle monetine, dei fagioli e, per gli adulti, anche un bicchierino di grappa o di liquore. Invece a Pasqua si usava “cozzare le uova”: ci si radunava nelle osterie del paese, ciascuno prendeva delle uova, le battevano fra di loro e l’uovo che restava intatto vinceva l’altro. Quest’usanza è oggi praticamente scomparsa.