Mestieri e usanze popolari
Un tempo la principale risorsa economica locale era la canna di palude (Phragmites australis), utilizzata per confezionare le “grisòle” (stuoie) richieste dall’edilizia. Oggi la raccolta delle canne è quasi scomparsa; essa veniva effettuata per lo più lontano dai centri abitati e, per tradizione, il rientro avveniva la vigilia di Natale che, così, diveniva per tutti una festa particolare. In quest’occasione era consuetudine osservare il digiuno penitenziale: non ci si sedeva a tavola fino a sera ma, arrivata la notte, in tutti i casoni si mangiavano orate e cefali arrostiti alla graticola, calamaretti fritti e anguilla in umido, serviti con l’onnipresente polenta e pan biscotto. Il dolce tipico era la “smgiassa”, cotta sotto la cenere e preparata con polenta, zucca, pinoli e uva secca. Dopo cena, le famiglie più vicine si riunivano per il gioco della tombola. Il giorno di Natale tutti andavano alla Santa Messa indossando il vestito della festa e, al ritorno, il pranzo era tipicamente rappresentato da riso in brodo e pollo lesso. I ragazzini erano solitamente vestiti con una rozza giacca da uomo e ai piedi portavano degli zoccoli di legno (i “cosp”). Gran parte della popolazione era analfabeta e, spesso, cadeva vittima della malaria e della pellagra; l’assistenza medica, infatti, era ridottissima, data la precarietà dei mezzi di comunicazione. Il traghetto, chiamato “passo”, era costituito da una barca e funzionava solo di giorno e con la buona stagione. Verso la fine dell’800 il “passo” venne trasformato in “passo doppio”, unendo due barche e sovrapponendovi una piattaforma, così da poter trasbordare, oltre alle persone, anche i carretti e i barroccini. Le strade, di cui le principali corrispondevano ai dossi e alle sommità arginali, erano estremamente disastrate, polverose d’estate e fangose d’inverno. Ciò, comunque, non scoraggiava chi aveva deciso di recarsi alle fiere di luglio e agosto, i mesi delle sagre e quelli in cui si festeggiava il Santo Patrono. Le sagre si svolgevano in questa stagione per il bel tempo e vi si potevano trovare le bancarelle di dolciumi e bibite colorate, le giostre con i cavalli, il tiro a segno e i “bibitai” con gassose. Queste manifestazioni erano molto affollate: gran parte della gente dei paesi limitrofi accorreva fin dal primo pomeriggio, per rientrare alle proprie case solo dopo il lancio dei fuochi d’artificio.
La presenza degli spazzacamini convinceva i bambini dell’esistenza della “vcéta” (la Befana), per la sua nota caratteristica di scendere dal camino per portare i doni. Diversi giorni prima dell’Epifania i ragazzi, su consiglio delle madri, andavano a raccogliere legna secca e la mettevano vicino al focolare, in modo che la “vcéta”, una volta arrivata, potesse accendersi il fuoco e scaldarsi. Ogni casa aveva un focolare, di solito era posto a sud e occupava mezza parete. Esso serviva per riscaldarsi e per cucinare; sul piano del camino c’era la graticola per arrostire il pesce e abbrustolire la polenta, mentre sul fuoco pendeva una catena a cui era appeso il paiolo per cuocere la polenta o la minestra. In inverno si usava riunirsi tutti intorno al focolare quando, a causa del maltempo, non solo i contadini ma anche i pescatori rimanevano a lungo inoperosi. Ci si radunava “a filò” (a chiacchierare) da qualche famiglia amica, portando delle pannocchie che, una volta lessate, si trasformavano in gustose “pèreppepè”. Altro luogo di ritrovo era l’osteria, unico posto in cui arrivava il giornale, sulle notizie del quale si poteva discutere per ore. Nei paesi del Delta, di tanto in tanto, si fermavano anche dei burattinai, che raccontavano fiabe sia per bambini che per adulti. Nella notte di S. Silvestro erano poche le persone che riuscivano a dormire, infatti, piccole comitive si aggiravano al buio di aia in aia per fare gli auguri a tutti: “bon gioran, bon’an, salùt e bon guadagn”. Vi era pure chi suonava il violino e chi la fisarmonica. Il mattino dopo le case erano prese d’assalto dalle allegre combriccole e dai ragazzi che, per le loro manifestazioni augurali, ricevevano in cambio delle monetine, dei fagioli e, per gli adulti, anche un bicchierino di grappa o di liquore. Invece a Pasqua si usava “cozzare le uova”: ci si radunava nelle osterie del paese, ciascuno prendeva delle uova, le battevano fra di loro e l’uovo che restava intatto vinceva l’altro. Quest’usanza è oggi praticamente scomparsa. |